[Premessa: Ciò che è scritto rappresenta una riflessione personale, frutto di un percorso di formazione nel campo dell’urbanistica e della partecipazione. Il tema è lo spazio pubblico. L’intento è quello di aprire un dibattito e una discussione sul modello di città a cui si aspira, di cui si parla troppo poco. Alcuni contenuti sono tratti dalla mia tesi di Master in progettazione e gestione di politiche e processi partecipativi, dal titolo “Società e spazio pubblico tra funzionalismo e complessità”, Relatore Mariano Sartore, Correlatrice Chiara Mazzoleni]
La crisi della sfera pubblica rende necessaria la riflessione su cosa sia oggi lo spazio pubblico e sui rischi che comportano i nuovi modelli della città contemporanea.
Ritornando al primo post sulla serie dedicata allo spazio pubblico, lo spazio sociale non può essere semplificato con regole e standard teorici, ridotto a congegno meccanico. Ed ecco che uno dei rischi nella progettazione della città è quello di funzionalizzare gli spazi riducendone la complessità.
In parole semplicissime: uno dei rischi quando si progetta una città è quello di trasformare gli spazi in luoghi “a senso unico”, pensati solo per una funzione (es. solo per parcheggiare, solo per consumare, solo per passare). Così facendo, si perde la ricchezza e la varietà che uno spazio urbano può avere, non incentivandone il massimo utilizzo.
Dare una regola allo spazio e forzare le modalità del suo utilizzo è una strategia di controllo sociale, che reprime il criterio della bellezza e spinge a una città in cui si è tutti uguali nell’assenza di libertà.
La città neoliberale, sponsorizzata come spazio “al servizio del consumatore”, è riconoscibile per il rispetto degli standard, la celebrazione dell’esagerato, l’irriconoscibilità di una identità locale, l’annullamento dei caratteri del contesto, la “bigness”, la compressione dei tempi, il traffico, il rispetto delle mode, l’espansione incontrollata di pari passo con la gentrificazione, l’obbiettivo unico di spingere le persone ad acquistare, possibilmente uscendo meno possibile di casa, promuovendo l’e-commerce e disincentivando la coesione sociale. Un’anti-città, se intendiamo la città come la pòlis greca dell’affare pubblico. L’interesse del profitto privato diventa uno strumento di governo sociale e spaziale.
Va detto che il commercio rappresenta un fattore importante in termini di vitalità urbana. Esso, insieme ai luoghi di socialità, costituisce occasione di relazione e incontro (soprattutto nel caso del piccolo commercio). Oggi però l’aumentare dell’e-commerce e la digitalizzazione (anche a motivo della compressione del “tempo libero”) contribuisce alla desertificazione della città. Inoltre, la televisione, i computer, internet, i cellulari hanno semplificato la comunicazione a grande distanza e allo stesso tempo hanno contribuito a creare un'alternativa allo spostamento fisico[1]. Se infatti si può avere tutto comodamente da casa, che senso ha investire sul Capital web[2](rete essenziale), ovvero sul tessuto di spazi aperti, la parte esterna del mondo pubblico?
Un’altra notissima targa per la città contemporanea, che costituisce l’ennesima forma di funzionalismo, è quella di “città turistica”. Si tratta di un concetto nuovo, tipico dell’età contemporanea. Talvolta le città storiche sono più turistiche che residenziali e sacrificano la propria vivibilità per preservare ed aumentare i flussi di visitatori, a discapito di chi vi abita, sempre secondo la logica di profitto. Tutto punta a preservare le caratteristiche del centro urbano, per non privarlo del riconoscimento conferitogli.
Questo porre in primo piano la sua “targa turistica” rispetto alla vivibilità quotidiana porta spesso al suo lento abbandono da parte dei cittadini, restando solo ristoranti e servizi “mordi e fuggi”. «Un guscio vuoto, un fondale di teatro», descrive questa città Marco D’Eramo[3]. Spesso le politiche pubbliche sono portate a premere in questa direzione, spinte da questa nuova fonte di capitale che in certi casi si configura come esclusiva, richiamando lo stesso iter già discusso riguardo il settore immobiliare (si veda post della rubrica precedenti).
Questo rischio è la condanna di città come Assisi, in cui il turismo è diventato l’unica risorsa e l’unico obbiettivo. Quello che ci aspettiamo dalla proposta politica non è massimizzare il turismo nella nostra città, ma tornare a un’idea di città in cui il turismo sia solo una delle risorse disponibili.
Un altro punto è molto legato alla nuova particolare idea che l’uomo sia nemico del paesaggio, della natura, del mondo. Durante il lockdown per covid19, le città si sono svuotate e si è assistito alla spettacolarizzazione della città vuota. I mass media non hanno esitato a sottolineare l’eccezionalità della fase storica, mostrando le piazze deserte, senz’anima e ammirando l’avanzare della natura sul paesaggio antropizzato, in un elogio all’ecologia e in implicita contestazione all’azione umana sullo spazio. Un capovolgimento di prospettiva, dunque, rispetto alla città degli anni Mille.
Di fronte all’innegabile fascino di quelle immagini, emerge con forza la dissociazione tra spazio fisico e sfera sociale, fatto tanto affascinante quanto angosciante per chi era solito vivere quei luoghi e si trovava a subire un distacco forzato dalle relazioni quotidiane.
Lo spazio pubblico, osservato tramite le live cam dalle residenze private, ha subito così un rapido mutamento di ruolo:
Quel che emerge da un simile quadro di contraddizioni è riconducibile a una profonda involuzione individualistica, segnata da un cambiamento semantico profondo per cui “la piazza”, emblema della città, non è più il luogo dell’interazione sociale, dei fatti collettivi, delle processioni religiose e delle manifestazioni collettive, luogo privilegiato di espressione e azione politica, di aggregazione e di conflitto sociale, ma è divenuta mero spazio fisico di fruizione e consumo individuale.[4]
Oggi sempre più persone si attivano in prima persona per migliorare la città, spesso perché deluse dalle istituzioni e spinte dal desiderio di cambiamento, libertà e protagonismo.
Queste iniziative, però, nascono da piccoli gruppi che agiscono in nome di una collettività che rappresenta in realtà solo sé stessi. Questo crea una deresponsabilizzazione delle istituzioni, a cui invece la collettività ha assegnato il compito pubblico, stipendiato versando le tasse, e può creare divisioni nell’ambito civile invece che unità.
Ed ecco un altro rischio, ovvero la nascita della “self-building city”: una città costruita dal basso, ma dove l’individuo prende il posto del pubblico. Essa, da un lato mostra un rinnovato interesse per lo spazio urbano, dall’altro rischia di indebolire il ruolo collettivo e condiviso della città.
L’urbanistica ha grandi responsabilità nell’affrontare le nuove questioni urbane. Oggi deve tornare ad interrogarsi sul proprio ruolo. Essa è spesso asservita all’interesse particolaristico e alla ricerca di una celebrità basata sull’estetica o lo sbalorditivo (si veda il fenomeno delle archistar), ma poi spesso resta inerme di fronte alle nuove questioni urbane. Vive una fase di afasia[5], manifestandosi spesso ignara dello stato dello spazio e incapace di proporre progetti realmente utili alla sfera pubblica.
Si riformula allora l’urbanistica in quelle che la Bianchetti chiama “gabbie terminologiche” (temporary urbanism, tactical urbanism…). Anche se queste nuove sottocategorie non sono altro che fasi o sperimentazioni parte di una disciplina che è unica e si chiama urbanistica, disciplina di studio e progetto (con misure tecniche, amministrative ed economiche) dell’ambiente in cui vive l’uomo.
Il sunto è che c’è bisogno di una pianificazione (strategia) prima, e di un progetto poi. C’è bisogno che l’urbanistica torni ad essere strumento autorevole, capace, politico, strategico, di bellezza. Nel nostro argomento particolare, l’urbanistica deve tornare ad occuparsi di spazio pubblico e di chi lo abita, ripartendo dalle specificità dei luoghi ed individuandone i valori e le risorse.
[1] Jan Gehl (1993), Vita tra le case, in Casabella n. 597-598. Il disegno degli spazi aperti, Milano, Elemond periodici, p. 28.
[2] Peter Buchanan (1993), Oltre il mero abbellimento, in Casabella n. 597-598. Il disegno degli spazi aperti, Milano, Elemond periodici, p. 31.
[3] D’Eramo M. (2019), Il selfie del mondo. Indagine sull’eta del turismo, Milano, Feltrinelli Editore, p.4.
[4] Sartore M. (2020), Andra tutto bene? La pandemia di coronavirus: politica, comunicazione
e societa civile, a cura di Medici L. e Randazzo F., Tricase (LE): Libellula Edizioni, p. 200-201.
[5] Bianchetti C., Urbanistica e sfera pubblica, Roma, Donzelli p. 4.